Eni

L’Eni in Kazakistan:

Berezovka, il villaggio dei veleni: 1.500 persone immerse nella steppa kazaka, dove i tetti sono lamiere e i bagni buche scavate in giardino. Qui la gente guadagna mediamente 40 mila tenghe al mese, l’equivalente di 220 euro. Eppure questa è una delle zone più ricche al mondo. Lo è da quando, 30 anni fa, si scoprì che sotto terra c’era il gas. Un mare di gas. Il giacimento, noto con il nome di Karachaganak, occupa un’area di 280 km quadrati, sotto la quale si nascondono 1,2 miliardi di tonnellate di petrolio e 1,35 trilioni di metri cubi di gas. A sfruttare il tesoro è un consorzio chiamato Kpo Bv, sede fiscale in Olanda, formato da quattro multinazionali. C’è la russa Lukoil, l’americana Chevron, l’inglese British Gas e l’italiana Eni. E proprio la compagnia di Stato italiana, controllata da ministero dell’Economia e Cassa Depositi e Prestiti, assieme a British Gas detiene le quote di maggioranza: il 32,5 per cento a testa.
Il gas del Karachagank, che da qui, dopo essere stato raffinato, arriva fino in Italia, allo stato originario contiene parecchie sostanze pericolose. Ci sono percentuali altissime di acido solfidrico, un composto chimico estremamente tossico, che respirato costantemente può causare malattie cardiovascolari, bronchite cronica, allergie alla pelle e agli occhi. Proprio le patologie più comuni tra gli abitanti del villaggio. Le sostanze più pericolose sono però chiamate mercaptani, presenti in alte percentuali negli idrocarburi di questa zona e considerati causa, oltre che di varie malattie mortali, anche di mutazioni genetiche. Tutti casi registrati nel paese.

L’Eni in Italia:

In Italia l’Eni è responsabile di avvelenamento del fiume Mincio a mantova e di aver sotterato enormi quantità di residui industriali tossici. Uno dei casi più di spicco è nel 1987 a Brindisi dove “reciclo” residui tossici in malte, mattoni, tegole, ecc e facendone sparire una gran quantità: ancora oggi non si sa dove siano spariti quei rifiuti tossici. In un area brindisina chiamata “discarica Micorosa”. Sin’oltre i 5 mt di profondità son stati trovati sepolti nelle viscere della terra, tonnellate e tonnellate di vel-ENI fra cui dicloroetilene, il famigerato cloruro di vinile, benzene, arsenico, e altri contaminanti per volumi complessivi che superano di 4 milioni di volte i limiti consentiti dalla legge.

Ecco un link dove spiega meglio il caso in Italia:

Brindisi: ecco come l’ENI seppellisce i suoi vel-ENI

L’Eni in Congo:

Il nostro cane a sei zampe vuole andare a tirare fuori “petrolio” in Congo, in una zona che si chiama Brazzaville, ricca di foreste tropicali.

Dico petrolio fra virgolette perche’ in realta’ l’ENI vuole sfruttare le sabbie bituminiche del Congo, il peggio del peggio in quanto ad impurita’ , inquinamento e necessita’ di infastrutture ad alto impatto ambientale per la lavorazione.

(Sabbie Bituminose. In pratica gli esperti insegnano che la lavorazione delle sabbie bituminose ha sempre comportato enormi rischi per l’ambiente nel quale sono state trattate. Le sabbie bituminose sono depositi di sabbia e argilla satura di bitume ovvero petrolio allo stato solido o semi-solido. Il procedimento per convertire il bitume in greggio può avvenire in due modi a seconda della profondità in cui si trova il materiale. A meno di 75 metri sotto terra si usa il metodo a miniera che consiste nello sradicare gli alberi presenti sull’area interessata e drenare il suolo per recuperare le sabbie bituminose. Queste, a loro volta, vengono caricate su grandi camion e trasportate in un impianto di estrazione dove, col calore e l’acqua, il bitume viene separato dalla sabbia. Per capire lo spreco di risorse naturali basti pensare che per produrre ogni barile di greggio sono necessari, in media, dai 2 ai 4.5 barili d’acqua. Gli scarti di questo processo vengono chiamati tailings e sono depositati in immense vasche di raccolta, visibili anche dallo spazio, che rilasciano nell’aria enormi quantità di vapori tossici. Oltre i 75 metri di profondità si usa il metodo cosidetto in situ che consiste nel separare il bitume dal resto degli elementi direttamente sotto terra e portarlo in superficie mediante l’uso di forti getti di vapore. Seppur meno dannoso a livello di impiego d’acqua – 0.8 barili per ogni barile di greggio prodotto – anche questo metodo è considerato estremamente inquinante.)

L’unico paese al mondo che estrae sabbie bituniche e’ il Canada, nella provincia dell’Alberta, dove 15 anni di “tar sands” hanno creato disastri ambientali su larga scala, fiumi inquinati, forste decimate, veri e propri laghi di liquami tossici, malattie e tumori rari alla popolazione.

Il Canada per colpa del suo “petrolio” non e’ riuscito a soddisfare i parametri di Kyoto e addirittura contempla di costruire centrali nucleari con il solo scopo di usarne l’energia per raffinare ed estrarre petrolio da queste sabbie a bassissimo rendimento.

Gli attivisti congolesi, tedeschi e britannici hanno denunciato tutto cio’ dicendo che la tecnologia che l’ENI usera’ sara’ ad alto impatto ambientale, e deviante rispetto al bisogno di contrastare i cambiamenti climatici.

Intanto la furba ENI in tutti i suoi comunicati ufficiali continuava a dire che avrebbe trivellato e costruito infrastrutture, pozzi, oleodotti e quant’altro in inutili zone di savana erbosa. Non avrebbero danneggiato le foreste tropicali con interventi petroliferi a larga scala.

Il Congo e’ coperto per il 60% da foreste tropicali. L’ENI, allora sarebbe stata una santa ed avrebbe evitato di trivellarle.

Ma se questi sono andati a trivellare pure dentro i parchi nazionali Italiani, in Basilicata, vi pare che useranno i guanti bianchi in un paese remoto come il Congo????

Il Wall Street Journal allora – mica il Corriere – fa delle indagini, analizza i documenti interni ENI raccolti dalle associazioni ambientaliste e scopre le bugie dell’ENI. Infatti, nella riservatezza delle proprie carte interne si dice candidamente che in realta’ la zona petrolifera del Congo e’ costituita “principalmente da foresta e da altre zone altamente bio-sensibili e delicate”. Mentono sapendo di mentire.

Queste foreste tropicali indisturbate dall’uomo fungono da perfetto assorbitore di emissioni di anidride carbonica e distruggerle significa scavare ancora un pochino il baratro ambientale del global warming verso il quale l’umanita’ si sta dirigendo.

Al resto del mondo l’ENI dice di stare facendo indagini sismiche, esplorazioni preventive, studi sociali e ambientali. Dicono che non si distruggera’ la foresta, i campi, e che le persone non saranno mandate via.

Fra di loro invece si dice che FINO AL SETTANTA PER CENTO dei loro progetti riguarda ecosistemi fragili e foreste delicate di alto valore ecologico.

Gia’ adesso l’ENI rilascia fumi tossici in Congo, dove alcune operazioni di estrazione del gas gia’ esistono.

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